SCREENSHOT DAL MONDO CHE NESSUNO MI HA CHIESTO DI COMMENTARE.
MA L’HO FATTO.
Nel cuore di Tokyo, tra grattacieli iperfuturistici, cartelloni con panda fluorescenti e gente che corre anche quando è ferma, esiste un locale che va controcorrente.
Non serve l’outfit giusto e neanche il sorriso.
Basta che tu stia vivendo una giornata storta.
Una settimana? Ancora meglio.
Si chiama Negative Cafe and Bar Mori Ouchi ed è il primo posto al mondo dove il buonumore è bandito.
Pensato per chi oggi non ce la fa. E nemmeno domani.
Silenzioso, pieno di legno e piante pensierose.
Progettato da un architetto che ha appena finito di ascoltare Adele.
Entri, ordini un drink e… piangi.
O semplicemente puoi startene lì, a guardare il vuoto, come se fosse la stagione finale di una serie che non hai capito ma hai visto tutta.
Qui nessuno ti chiede come stai.
Perché lo sa già. Male.
Puoi accomodarti con il peggio di te: l’amore finito, il lavoro che detesti, il vicino di casa che sbatte i tappeti alle sette di mattina.
In questo bar puoi essere triste, frustrato o esaurito senza doverti giustificare. Anzi, se sorridi troppo, forse ti cacciano.
Un po’ caffè, un po’ galleria d’arte dell’apatia, un po’ sala d’aspetto per chi aspetta solo che passi.
In Italia una cosa del genere non funzionerebbe.
Un locale pensato per i momenti no?
Impossibile.
La gente si metterebbe in fila solo per chiederti “che t’è successo?”, non per sfogarsi.
I curiosi supererebbero gli specialisti del crollo emotivo.
Il bar si trasformerebbe in un talk show, con opinionisti non richiesti al tavolo accanto:
– Hai litigato?
– Con chi?
– È per il lavoro?
– È per l’amore?
– O perché oggi è lunedì?
Da noi non c’è spazio per la privacy emotiva, la gente vuole sapere.
Ti scruta, ti interroga, ti diagnostica con l’aiuto del gruppo WhatsApp della palestra.
In tre minuti parte il racconto della cugina del vicino, della separazione dal marito del ’98 e alla fine ti ritrovi coinvolta in una catena di disgrazie che neanche il TG delle 20.
Il silenzio da noi non fa atmosfera: fa preoccupazione.
Se entri in un locale e nessuno parla, pensi sia morto qualcuno.
Forse a Milano un Negative Cafe potrebbe avere una chance.
Zona Brera.
Poltrone in velluto, playlist minimal, gente elegante con occhiali Celine e lacrime compatibili con il waterproof.
Aperto dalle 7.30, nel menù caffè espresso e pianto su prenotazione.
Perché il dolore lì è funzionale, pettinato, a volte sponsorizzato.
L’ansia è performance e la tristezza un’opportunità per mostrare vulnerabilità consapevole.
Il dramma diventa esperienza, esperienza fa curriculum, curriculum fa carriera. E così, anche il pianto, purché estetico e con fattura elettronica, può finalmente diventare un trend.
Eppure, il bisogno ci sarebbe.
Ma non siamo pronti.
Perché l’Italia è il Paese dove il dolore si maschera con l’ironia, si mette in scena come un’opera lirica, ma guai a prenderlo sul serio.

